FRANZ DI CIOCCIO
THE OTHERS PATRICK DJIVAS FLAVIO PREMOLI FRANCO MUSSIDA |
Come ho iniziato a suonare la
batteria? Dipingendo. Sì, proprio così. Da ragazzo amavo molto dipingere e spesso lo
facevo ascoltando la radio. Inutile dirvi che il ritmo era già parte di me.
I pennelli danzavano, i piedi e le spalle si muovevano al ritmo: avevo trovato la strada
per la batteria, per una musica finalmente istintiva e indisciplinata.
Sì, ho detto proprio finalmente perchè, essendo figlio di un musicista, uno di quelli
seri, prima suonavo il sax, uno strumento per niente indisciplinato.
La batteria fu la zona di resistenza a mio padre.
Per i primi tempi mi facevo prestare gli strumenti. C'era un mio amico che, stando bene
finanziariamente, aveva la batteria. Io, ogni tanto, mi facevo portare alcuni pezzi.
Iniziai così e intanto mettevo su un gruppo via l'altro.
Ho sempre considerato la batteria un posto strategico. Ha i suoi svantaggi é vero. Non é facile, ad esempio, farsi vedere dal pubblico mentre si è nascosti da una selva di piatti. Insomma, il batterista non é il musicista più riconoscibile di una band. Da lassù però si vede tutto, tutto ciò che sta accadendo. Si vede il pubblico, si partecipa ai suoi sussulti, si intuiscono gli umori e si capisce se la pressione in sala sta salendo. Si vede anche quanto la band sta spingendo, quanto é concentrata. E un posto centrale, come il cuore. E la classica posizione del portiere in una squadra di calcio, senza però avere langoscia del goal. Sì perchè i goal il batterista li segna, non li prende mai. Lassolo, per esempio, é un goal sicuro. Collocato quasi alla fine di uno spettacolo o durante il bis, mette la ciliegina sopra un concerto alla panna. Come batterista mi sono sempre dato un buon voto, perché ho un bel drumming, ma ho sempre pensato che un bravo batterista deve prima di tutto essere efficace, in funzione del gruppo in cui si esprime. Ho sempre rifiutato, durante interviste o semplici conversazioni sulla musica o sui musicisti, di dare etichette. Soprattutto nei primi anni '70 cera un po la mania di fare classifiche e anche tra i musicisti si facevano spesso stupide ed interminabili discussioni: Clapton é più bravo di Hendrix? Keith Emerson é più veloce di Rick Weakeman? Ball shit, come dicono in Usa, cazzate, letteralmente 'palle di merda'. Ho sempre odiato queste discussioni. Alla domanda: "Chi é secondo te il miglior batterista?" rispondevo e rispondo tutt'ora che il migliore è quello che nel suo gruppo è il più efficace. Come si può pensare che Keith Moon non fosse il migliore quando lo si vedeva suonare negli Who? O come non pensare che Ginger Baker fosse il migliore a sentirlo coi Cream? Il migliore, in realtà, é colui che riesce a dare con il suo stile musicale unimpronta indelebile alla propria band. Non c'è competizione in questo campo, c'è arte, sensibilità e collaborazione. E naturalmente anche tanta tecnica. Ma non è indispensabile misurarla.
Eravamo a Londra, al Victoria Palace. C'era
un grande entusiasmo e io ero molto felice perché finalmente avevo i miei gong. M'ero
sbattuto come come un dannato per procurarmeli. Li avevo visti usare diversi mesi prima da
Palmer e me ne ero innamorato. Ma loro, gli "Emerson Lake and Palmer", erano
ricchi e io mi ero dovuto arrangiare, all'italiana, come al solito.
I gong di Palmer erano stupendi, costruiti col sistema orientale: lamina molto fine e un
suono che si espande rapidamente. Io, invece, mi ero rivolto alla UFIP, una ditta italiana
che faceva i gong. In effetti non erano veri gong. Erano fatti con una lastra di ottone
pressofusa e molto larga. Quando li suonavi il suono arrivava molto tempo dopo. Avevano un
metro di circonferenza ed erano molto pesanti. Li avevamo montati su dei supporti tubolari
con delle ruote sotto, derivati probabilmente dagli stand usati per i vestiti. Era uno dei
tanti problemi tecnici che incontravamo spesso... La PFM aveva bisogno di tutte quelle
diavolerie, del tutto normali in America o in Inghilterra, ma allora, in Italia, non c'era
ancora l'assistenza adatta.
Comunque, come dicevo, ero al Victoria Palace ed ero molto contento.
Salii sul palco e mi dissi: "Adesso faccio una scena della Madonna", con quella
tipica voglia di rivalsa del provinciale italiota che, partito un bel giorno da Pratola
Peligna in provincia di Aquila, si ritrova a suonare a Londra.
Insomma ci diedi dentro per bene e mi riservai il meglio per il gran finale. Quando
arrivò avevo un bell'assolo da fare, tutto per me. Credo sia meglio vedere la cosa dal
punto di vista del pubblico. Dunque davanti a voi c'è il batterista, dietro una trincea
di ben dieci tamburi, più i piatti e tutto il resto. Io sto martellando e drummando,
sudo, mi agito, rullo su tutti tamburi e, giunto alla fine, acchiappo la mazza e la
picchio su un gong. Intanto libero anche l'altra mano, prendo l'altra mazza e suono
sull'altro gong. E via così, per diverse volte.
Ma cosa succede? Succede che in tutti i teatri che si rispettino, e il Victoria Palace di
Londra è uno di questi, il pavimento del palco è inclinato verso la platea. Così i
gong, vibrando, oscillando e pesando uno sfracello di chili, cominciano a scivolare in
avanti, verso di me, che non li vedevo. Insomma praticamente, per restare in ambito
inglese, sembrava la scena del Machbeth dove la foresta avanza verso il castello. Io non
me ne accorgo finché non me li sento addosso. Travolgono tutto: c'è un gran rumore di
ferraglia. Io mi ritrovo incastrato in una selva di aggeggi, piatti, reggipiatti, tamburi,
reggimicrofoni, supporti dei gong e così via. Insomma un disastro. Per di più cado dallo
sgabello e mi ritrovo per terra ma, siccome sono un testardo abruzzese e non volevo
perdere il tempo, insisto imperterrito a suonare, con i gong contro la schiena che
continuano a premere e le braccia levate per raggiungere i pochi tamburi rimasti ancora
utilizzabili. Di me ormai si vedono soltanto le mani. Vi lascio immaginare... Io stringevo
i denti e, senza mai smettere di fare andare le bacchette, gridavo: "Qualcuno mi
aiuti! Qualcuno mi tiri fuori di qui, cazzo!" Anzi, probabilmente ne ho tirate giù
di peggio, ma confidavo nel fatto che gli inglesi non mi avrebbero capito.
In un modo o nell'altro abbiamo risolto la cosa senza interrompere lo spettacolo. Abbiamo
portato a termine il pezzo e poi a sipario calato, mi hano tirato fuori da tutto quel
disastro. Il concerto finalmente era terminato: ci sono stati tanti applausi e tutto andò
benissimo.
Fin troppo. Il giorno dopo la stampa inglese era assolutamente entusiasta:
"Fantastico spettacolo della Premiata Forneria Marconi" era il tono più tipico
"l'assolo di batteria è stato uno dei momenti più belli, con una straordinaria
dimostrazione di potenza, acrobazia e senso scenico da parte di Franz Di Cioccio, che per
il bene dei fans dovrebbe ripetere tutte le sere questa sua performance!"
Probabilmente era una buona idea, ma io non ero per nulla d'accordo perché, mentre leggevo
tutte quelle cose, ero dolorante, pieno di lividi e con la schiena tutta rovinata.
Ne ho avute e ne ho tuttora veramente tante. Sono una persona molto attiva, non riesco mai a rimanere fermo. Mi piace esprimermi in attività diverse per cercare nuovi stimoli ed esperienze creative.
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TV (Musiche originali) Dall'unione con Patrick è nata "Aereostella", una
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Uno dei grandi miti dei ragazzi di oggi, di allora e di sempre, è quello di pensare di vivere un momento che è il primo, il migliore. Se tu hai qualche anno di più, non importa quanti, sei vecchio. È un po' come giocare all'immortalità, e infatti quando avevo vent'anni non pensavo assolutamente che la mia musica potesse invecchiare. Ero convinto che sarei piaciuto a tutti per sempre e invece non è così; vivi il tuo tempo e poi c'è un altro tempo. |
Non sei mai il primo,
sei solo l'ultimo arrivato. Essere il primo è un'idea che sta nella tua testa, ma in
realtà qualcuno è già passato di li e qualcun altro sta già costruendo qualcosa per
diventare il primo dopo dite. La verità è che tu sei li dove sei, e basta, per cui io
voglio vivere bene ogni singolo momento della mia vita, perché è irripetibile. Non posso
vivere a cinquant'anni facendo finta di averne venti e neanche passando il tempo a pensare
a cosa succederà quando ne avrò sessanta. Va a finire che mi perdo i cinquanta. Sembra retorica, ma guardando le cascate del Niagara un giorno uno mi disse: "Vedi quest'acqua? Fa questa strada una volta sola". In fondo è vero, tu vedi quella massa d'acqua che precipita e rimani scioccato: quella goccia d'acqua, quella che passa in quel momento, non tornerà. Ma poi si trasformerà, tornerà vapore e ritornerà a fare quel tragitto, in un'altra forma. A vent'anni devi ancora prenderti il primo scolo, ti devi innamorare ancora dodici volte per scoprire che è tutto così, devi ancora capire che la vita va presa in maniera virtuale. Non è vera, tutto è finto, that's entertainment, siamo in un teatro. Non ti puoi prendere sul serio, nel bene e nel male. Questo l'ho imparato e ne sono felice perché mi consente di vivere tutto con un grande entusiasmo. Quindi non ho età, in un certo senso divento immortale, nel senso che sono senza tempo. Perché essere immortale davvero significa che devi vivere la stessa pizza per troppo tempo. Ed è meglio vivere bene il tuo tempo e poi magari riconvertirti nelle trasformazioni, nelle reincarnazioni, nelle distruzioni, piuttosto che vivere trecento anni di fila, perché credo sia una palla! |