CURIOSITA'
LA STORIA
I TOUR
DISCOGRAFIA

Isotta Fraschini o Forneria Marconi ?

FRANZ - L’idea della fabbrica di prestigio ci piaceva, la percepivamo come una sorta di buon auspicio per chi, come noi, era abituato a fabbricare il suono per gli altri in sala di registrazione. Ma il secondo, "Forneria Marconi", ci sembrava più affascinante, proprio perché era inedito e non si riferiva a nessuna realtà conosciuta. Era stato proposto da Mauro, perché così si chiamava un gruppo in cui aveva suonato anni prima, ma in realtà era il nome del negozio di un fornaio di Chiari, in provincia di Brescia. Ma se pure quel nome non era male, tuttavia mancava ancora qualcosa. Se doveva essere una fabbrica di suoni, doveva avere anche un titolo di nobiltà... e così Colombini, il direttore artistco della Numero Uno, suggerì di anteporre "Premiata" che, con il suo tocco old fashion, sottolineava la qualità artigianale della nostra musica (lo si dimentica spesso, ma lo strumentista lavora con le mani, come un falegname, un sarto o un panettiere).
Un orientamento coraggioso che si sarebbe rivelato vantaggioso o svantaggioso a seconda dei casi, come vedremo.

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Supporter ai Deep Purple

Anche fare da supporter ai gruppi stranieri fu una novità: non c'era nessuna tradizione in Italia. Cominciarono con i Procol Harum, poi ci furono gli Yes. Dopo queste prime esperienze da vere e proprie cavie musicali, il ruolo del supporter cominciò a delinearsi con più precisione anche nella colonia italiana. Naturalmente bisognava avere caratteristiche artistiche di provata autenticità, ma soprattutto bisognava distinguersi per faccia tosta. Forse la dote più richiesta era una attitudine gladiatoria, perché sul palco allora non si sapeva mai come poteva andare a finire. Il progressivo entusiasmo del pubblico, che attendeva con ansia la star della serata, poteva anche sfuggire di mano a chi organizzava i concerti.
FRANZ - E in questi casi al pubblico potevano sfuggire dalle mani lattine e gelati, quando andava bene, altrimenti sanpietrini - grandi protagonisti degli scambi di opinione nei surriscaldati anni '70.
Una bella scuola non c’è che dire. Come avrete capito, erano tempi vitali, ma duri. Chi apriva lo spettacolo poteva ritenersi fortunato se riusciva a non farsi fischiare dal pubblico e a portare a casa sani e salvi gli strumenti. Fu in questo clima decisamente burrascoso che approdarono a una delle svolte cruciali della loro carriera: il concerto con i Deep Purple che si svolse a Bologna nel '71.

FRANZ - C'erano diecimila persone in spasmodica attesa del grande gruppo di hard rock e noi eravamo lì ad aspettare che qualcuno ci presentasse. Ma il promoter della serata, Francesco Sanavio, di fronte a tanta calca, non sapeva che pesci prendere e, preoccupatissimo, ricadeva nella sua parlata originaria. "Io non esco ad annunciarve, ciò" diceva. "Prima dei Purple!... Con quel nome ridicolo! Cosa digo ciò, ecco la Premiata Forneria Marconi? Prima dei Deep Purple... Me masano, ciò... io non esco. Andate fori così, i’é afari vostri." Non ci fu nulla da fare e così un tecnico di buon cuore si addossò la responsabilità di annunciarci in modo assolutamente casuale, mentre stava provando i livelli dei microfoni. Il nostro nome, ancora sconosciuto e assolutamente assurdo per l’epoca, risuonò come una sfida per il pubblico che si era riunito ad attendere Ian Gillan, Ritchie Blackmore e compagni già dal pomeriggio. Ma noi, convinti di avere tra le mani una grande occasione - era il primo concerto italiano di un mito consolidato del rock mondiale - sfoderammo tutta la grinta di cui eravamo capaci e salimmo come se niente fosse sul palco. Eravamo al buio, perché nessuno si era preso la briga di accendere le luci. Ci sbrigammo e in pochi attimi le note di "21th Century schizoid man" dei King Crimson esplosero dagli amplificatori avvolgendo la platea in un vortice di suoni che lasciò tutti senza fiato. Dopo qualche minuto di perplessità tutto filò liscio, tanto che parecchia gente incominciò a chiedersi quale fosse mai quella nuova e sconosciuta band inglese che stava aprendo con tanta maestria la serata. Queste voci giunsero naturalmente a Sanavio che, finalmente rincuorato, alla fine della nostra performance salì sul palco e sfoderò un tono soddisfatto da guascone. "Questi sono la Premiata Forneria Marconi" disse al microfono "sentirete ancora parlare di loro."Fu buon profeta e quando diventammo famosi non dimenticammo quel memorabile debutto al buio. Così, ben consapevoli che quando sei alle prime armi le occasioni e gli spazi per poterti esibire non bastano mai, siamo sempre stati inclini ad una certa filantropia nei confronti degli artisti emergenti.
Tra i tanti artisti che in seguito aprirono i concerti italiani della Premiata Forneria Marconi ci sono stati: Finardi, Branduardi, Arti e Mestieri, Acqua Fragile, Fortis e perfino un giovanissimo Roberto Benigni, che si esibì in una serata a Grosseto. L’unica cosa che i nostri amici raccomandavano ai loro supporter era questa: "Dovete cavarvela da soli. Noi vi diamo lo spazio ma il resto dovete farlo voi."

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La carrozza di Hans

FRANCO - E’ stato il primo brano originale composto e proposto al pubblico della PFM.
Nell’aprile del ’71 suonavamo a Torino e la nostra casa discografica, la Numero Uno, per la quale non avevamo ancora inciso nulla, ci iscrisse al Festival d’avanguardia e nuove tendenze di Viareggio. Serviva un brano originale per poter partecipare. Così, stimolato dall’urgenza, mentre tutti dormivano nel camioncino che guidavo per riportare tutti a Milano dopo la serata a Torino, iniziai ad immaginare nella mia testa, la musica di una suite essenzialmente strumentale, con un inciso melodico. La struttura era complessa e mi ci volle tutto il viaggio per completarla. Arrivato a Milano e scaricati i ragazzi una volta a casa presi subito la chitarra e riversai su di essa il contenuto della composizione che avevo in testa. Ci misi circa due ore per decodificarla e impararla, visto che non era certo semplice. Poi andai a dormire confidando che al mattino mi sarei ricordato tutto. Così fu. Il giorno dopo ci riunimmo tutti a casa di Flavio per prendere una decisione definitiva su cosa portare al Festival: fu una sorpresa gradita per tutti ritrovarsi un pezzo su cui lavorare! L’arricchimmo in poco tempo di improvvisazioni e lo facemmo nostro con una naturalezza davvero sorprendente vista la difficoltà di unisoni, stacchi d’insieme, cambi repentini d’atmosfera. La Carrozza di Hans si completò con il testo di Pagani che sottolinea l’aspetto del viaggio nella vita. E con quel brano vincemmo il Festival più prestigioso di quel tempo.

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La voce del moog

FRANCO - Impressioni di settembre è’ un brano a cui sono fortemente legato.
E’ uno di quei brani che sono usciti di getto, come un dono del cielo che arriva inaspettato, e al momento giusto. Un momento di ispirazione vissuto sul divano dei miei genitori, con lo sguardo sognante, le dita che trovavano da sole gli accordi che servivano ad accompagnare una melodia che esce di getto, un canto il cui sviluppo cercava di portarmi verso un culmine, una sorta di immagine di apoteosi, di supremo appagamento, di sfogo benefico e positivo che è sfociato nell’inciso musicale.
Impressioni di settembre nacque così, e così rimase con la sola aggiunta a posteriori di un momento gridato sulla seconda parte, sollecitato dalle necessità del testo di Mogol.
Franz - "Impressioni di Settembre" venne composto sulla base di una intuizione fantastica di Franco: era la prima canzone che non aveva il classico ritornello. Mi correggo: il ritornello c'era, ma era suonato, non cantato. Quell'inciso era talmente bello che ci sembrava di non avere a disposizione lo strumento adatto per farlo. Provammo con il flauto, ma non aveva la forza evocativa, lo facemmo con la chitarra, ma era troppo normale. Mancava lo strumento... ma questo strumento esisteva. Lo avevamo sentito in un disco di Emerson Like & Palmer che si chiamava "Luky man". Era uno strumento dalle sonorità nuove, simili a quelle delle tastiere e dei fiati. Sapeva di terra, di cielo, di mare e di tutte queste cose insieme. Ci informammo e venimmo a sapere che lo importava la ditta Monzino. Si chiamava Moog, dal nome del suo inventore ed era composto da tre oscillatori che creavano delle onde da mescolare insieme. Potevi giocare con delle manopole e creare il tuo suono. Potevi farlo più acuto, più morbido, come volevi: poteva sembrare una sega, un clarino, un ottavino... poteva sembrare tante cose ma era comunque sfacciatamente sintetico e tremendamente bello e affascinante, perché ti scuoteva. Era la prima volta che si sentiva un suono sintetico e ci entusiasmò.
Come nelle migliori fiabe, arrivò un colpo di fortuna. Incontrammo il Signor Monzino quasi per caso, alla "Mostra dello strumento" del 1971. Aveva con se un prototipo di Moog, il secondo, perché fino a quel momento lo possedeva solo Keith Emerson, che lo aveva ricevuto dal signor Moog in persona. Al solo pensarci sospiravamo di sconforto: giocavamo ad armi veramente impari. Così guardavamo estasiati il Moog dei nostri sogni - un modello portatile - convinti che fosse proprio quello che ci serviva. "Quanto costa?" chiedo a Monzino. Costava uno sfracello e mezzo. E noi uno sfracello e mezzo non ce l'avevamo. Ancora una volta riappare l'abruzzese che c'è in me e dico a Monzino: "Guarda, io penso che questo strumento potrebbe veramente dare una svolta alla musica italiana. Dallo a noi e ne venderai almeno dieci". Non so come, ma Monzino ci diede il moog. Con il suo suono incidemmo Impressioni di Settembre. Uscì il disco e fu un botto pazzesco. Era un suono nuovo, una novità per i sensi, una nuova creazione di immagini e suggestioni. Ci diede una marcia in più (oggi si direbbe un vantaggio competitivo) e ci fece conoscere come un gruppo originale, innovativo. Un vero gruppo di pop music. Il primo in Italia. Fu da questo successo che nacque l'idea di fare il primo LP.
Quanti Moog vendette Monzino? Molti più di dieci!

 FLAVIO - E' difficile dare una spiegazione a ciò che avviene nel momento in cui ci si siede di fronte ad uno strumento. Tutto è sempre subordinato allo stato d'animo di quel preciso istante, a quello che hai fatto poco prima, a quello che hai mangiato, a come hai dormito, a cosa hai sognato, insomma, a come stai. Questo naturalmente è il bello di fare musica. Detto ciò, è pur vero che, quando si accendono strumenti nuovi, l'emozione di avere "nuovi stimoli" da essi è fortissima. Si spera di incontrare un suono nuovo che scateni nuove idee, che ti possa far scrivere, creare in un modo differente.

Per questa ragione gli autori provano sempre a scrivere sempre con strumenti molto differenti tra loro. Io, durante la mia carriera, ho avuto la fortuna di trovarmi al momento giusto e nel posto giusto per ben due volte. La prima a Rimini, suonando il Mellotron e la seconda a Milano, in un piccolo studio di registrazione della Numero Uno, la nostra casa discografica. Mi fu portato il Minimoog. Era il primo arrivato in Italia. La PFM stava incominciando la sua storia: Con l’aiuto di quelle sonorità, la nostra musica, oltre alla particolarità della scrittura e degli arrangiamenti avrebbe potuto avere ancora più magia. I brani in lavorazione erano "Impressioni di settembre" e la versione su disco di "La carrozza di Hans". Poi seguì il nostro primo album, "Storia di un minuto".

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Il Mellotron

FRANZ – Una sera ci trovavamo a Riccione, in un locale dove suonavano i Beggars Opera, un gruppo inglese che sarebbe poi ripartito per il suo Paese. Avevano uno strumento pazzesco, che noi avevamo già sentito in un disco dei King Crinson e in altri dischi inglesi dell’epoca. Sembrava un'intera orchestra. Noi siamo impazziti, lo abbiamo comprato e ci siamo presi anche il loro tecnico. Era l’unico che sapesse aggiustare il Mellotron, che è uno strumento estremamente delicato, non proprio il massimo da portare in giro tutti i giorni. Era come un registratore, con una serie di nastri tesi da molle. Ogni tasto ne azionava uno, ma si aggrovigliavano con estrema facilità. Cosicché, specialmente dopo un trasporto, quando provavi a suonare, certe volte venivano fuori dei suoni spaventosi, da mucca marina incazzata. Era un incubo: tutte le volte che portavamo in giro il Mellotron era come se portassimo una reliquia della Madonna, però era talmente mitico che quando arrivavamo per una serata e scaricavamo il catafalco di legno che conteneva tutti quei nastri, c’era sempre un capannello di persone attorno. La magica reliquia fu usata per la prima volta all’Altro Mondo di Rimini. Ad un certo punto abbiamo fatto spegnere tutte le luci, tenendo solo uno spot su Flavio che suonava.
FLAVIO - Durante lo spazio dedicato all'improvvisazione andai come spinto da un desiderio incontrollabile su quello strumento. Grazie ad una magica sonorità di archi, sia al sottoscritto che alle migliaia di persone davanti a noi venne un lunghissimo brivido, più vicino alla commozione che all'emozione.Franz - Sì è vero, venne a tutti la pelle d’oca. Certamente questo strumento ha dato molto al suono della PFM. In quei nastri preregistrati abbiamo scoperto un sacco di sorprese: una famosa scala di chitarra di Bungalow Bill dei Beatles nel primo tasto, l'effetto di un hit dei Moody Blues nel secondo tasto... e così via. Ci impadronimmo di tutti questi tesori e quando uscì la 'Carrozza di Hans' facemmo sensazione con una serie di accordi di violini, tutti presi dal Mellotron.

FLAVIO - Insieme al Moog, il Mellotron è uno degli strumenti che più di ogni altro ha segnato la storia della PFM e credo anche la mia vita di artista. Non che io rinneghi il pianoforte o la mia prima fisarmonica, ma con essi ho un rapporto quasi di odio-amore.
Durante la mia infanzia e la mia adolescenza ho passato così tante ore a studiare Bach o Mozart che mi è impossibile dimenticare quei sacrifici, sicuramente ricompensati dalla grande fortuna di potere fare musica tutta la vita, sacrifici che però mi hanno fatto rinunciare ad un sacco di partite di calcio con i miei amici.

 

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Le registrazioni di "Storia di un minuto"

Le registrazioni di Storia di un minuto seguirono di poco l’uscita del loro primo 45 giri ("Impressioni di Settembre" e "La Carrozza di Hans"). La realizzazione dell'LP fu il frutto di una scelta ben precisa: suonare in studio tutto dal vivo, per imprimere al disco l'inconfondibile marchio di energia e immediatezza che li distingueva. E in effetti Storia di un minuto sprigionò una magìa che fu recepita e così apprezzata dal pubblico, da portare il disco in testa alle classifiche discografiche (cosa mai accaduta in precedenza per l’ LP di un gruppo italiano). Mussida scrisse le musiche, Pagani i testi e tutti insieme arrangiarono l’album con la supervisione di Claudio Fabi, che nel frattempo aveva sostituito Alessandro Colombini alla direzione artistica della Numero Uno.
Se "La Carrozza di Hans" risentiva ancora di alcune atmosfere crimsoniane, le altre canzoni avevano sonorità molto innovative.
"Dove e quando", con le atmosfere quattrocentesche nella prima parte e quelle jazzate nella seconda, insieme a "Grazie davvero", brano con una magistrale orchestrazione di fiati curata da Premoli, sono due dei momenti musicali più riusciti dell'album. "Impressioni di Settembre", é presente in una versione con un'introduzione più lunga, che prepara l’impatto emotivo della frase col Moog. "E’ festa", invece, é la prima tarantella rock.
FRANZ - E' il brano che, più di ogni altro, ci ha rappresentato nel mondo. Qui spicca con evidenza il recupero del linguaggio della nostra musica popolare. Dopo tanti anni di gavetta, avevamo finalmente fatto la cosa per noi tutti più importante: un disco che ci piaceva.Fondendo l’elettronica dei sintetizzatori, le mandole antiche e altri strumenti inconsueti per il rock, avevamo trovato un suono personale e italiano, in grado di potere finalmente competere con quello dei grandi gruppi stranieri.

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Tour al Sud

Avevano fatto un LP di successo e pertanto, esattamente come si faceva in Inghilterra o in America, si lanciarono in tournée. Solo che bisognava inventarsi tutto, perché in Italia non c'era alcuna tradizione a riguardo. I gruppi e in generale i musicisti suonavano e cantavano nei locali, nelle sale da ballo o nei dancing. Poi c'erano i festival tradizionali, ma erano un'altra cosa, perché non richiedevano l'elaborazione di un percorso artistico e un impegno rilevante nel tempo. Inoltre la promozione di una novità come "Storia di un minuto", che era una specie di rock-opera, richiedeva spazi particolari e una messa in scena adeguata, insomma tutto quanto caratterizza lo spettacolo di un gruppo di progressive. In conclusione, l'organizzazione era tutta da creare.
FRANZ - Dopo molte discussioni viene fuori l'idea buona: i teatri. Erano spazi relativamente disponibili, attrezzati in modo adatto e con una buona acustica. Per di più erano al coperto. Ci diamo da fare e in qualche settimana riusciamo a ottenere la disponibilità di diversi teatri, la maggior parte del Sud. Allora seguiamo l'onda e decidiamo di fare una tournée solo nell'Italia meridionale. L'idea ci piaceva, perché eravamo tutti milanesi o lombardi, e in fondo era un po' come andare ad esplorare una realtà che, soprattutto dal punto di vista dello spettacolo musicale e del rapporto col pubblico, ci era abbastanza sconosciuta. Insomma, l'avventura, come sempre, ci attirava. E poi ci sembrava utile andare a portare la nostra musica in luoghi che erano rimasti esclusi dal crescente fermento di iniziative legate al progressive, che avvenivano soprattutto al Nord. Partiamo e ben presto ci accorgiamo che abbiamo fatto male i calcoli: non ci stavamo coi soldi. Venivamo pagati a percentuale e il pubblico non offriva guadagni sufficienti per coprire le spese. Ma l'idea di sospendere tutto non ci andava giù. Oggi potrà forse sembrare strano, ma ci rendevamo conto che in molti posti, specialmente quelli un po' fuori mano, c'era tanta gente che ci aspettava, che voleva sentirci suonare. E spesso non perché ci conoscessero già. "Finalmente qualcuno si accorge di noi" ci dicevano spesso. Erano tempi molto diversi da quelli che stiamo vivendo, c'era una gran voglia di novità, una grande disponibilità, probabilmente anche perché la società era nel pieno di un periodo di evoluzione velocissimo e appassionante. Insomma, se oggi si sbava dietro a Internet, allora ci voleva la passione, il corpo, la musica dal vivo. Comunque, tutto questo fermento purtroppo non ci dava abbastanza denaro allora… trovammo un escamotage: due spettacoli a data, uno al pomeriggio e uno alla sera. Col primo pagavamo il teatro, col secondo intascavamo qualche soldo – non molti: una volta sottratto quanto necessario per il mantenimento, la benzina, eccetera, non rimaneva che… pochissimo. Nel complesso però credo si possa dire che è stata la tournée più pionieristica della storia della musica rock italiana. Una vera avventura. Non c'era neanche un modello di contratto. Lo abbiamo mutuato dagli inglesi e dagli americani.

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Per un amico (Lake a Roma)

Alla fine della tournée del '72 si eravamo convinti di avere trovato un suono personale e italiano in grado di potere finalmente competere con quello dei grandi gruppi stranieri. Fu con questa consapevolezza, che tornarono in sala d’incisione per registrare il secondo LP. La loro intenzione era quella di tentare il grande salto verso l’Europa. Non era una semplice presunzione, ma un'opinione bene motivata e confortata dal parere dei grandi manager che accompagnavano in Italia i gruppi stranieri. Sono stati soprattutto loro a incoraggiare il gruppo a fare il grande passo. Il secondo LP, Per un amico, fu accolto bene dal pubblico ma tiepidamente dalla critica, che all’epoca era troppo esterofila. L’album era volutamente diverso dal primo perché, per principio, non volevano clonare il successo precedente. Aveva un respiro più internazionale e i fatti lo confermarono.
FRANZ - Durante un concerto di Emerson Lake & Palmer a Bologna, Franco Mamone diede loro un nostro nastro. Conteneva un mix tra cover di brani pop e canzoni tratte da Storia di un minuto. Lake tornò a Londra e pochi giorni dopo telefonò a Mamone informandolo che sarebbe venuto in Italia per vederci e sentirci dal vivo. E difatti il 20 Dicembre del ‘72, al PalaEur di Roma, assistette al concerto di presentazione di Per un amico. Ne rimase talmente entusiasta da esibirsi in un bis insieme a noi.Era fatta. Greg ci avrebbe portato a Londra. Ci aspettava alla Manticore, la neo nata etichetta degli Emerson, Lake & Palmer.

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Manticore

FRANZ - Tutto lo staff della Manticore aveva nei nostri confronti una grande ammirazione. Ci riempivano di lusinghe e adulazioni. Gli aggettivi più miseri erano "terrific", "unbeliveble" "great" fino a "superb", ma quando si accennava a parlare di pounds l’atteggiamento cambiava. Il Manticore Theatre era il quartier generale di Emerson Lake and Palmer e quel pomeriggio c’era un'atmosfera da grandi manovre. Ogni star del celebre trio dava ordini a un suo personale scudiero che, a sua volta, comandava una caterva di altri tecnici.
Emerson era quello che dava più da fare di tutti. La manutenzione e la preparazione del suo organo Hammond richiedevano un lavoro pazzesco e molta pazienza. Inoltre stava provando uno degli effetti per il prossimo show, che avrebbe visto come protagonista un clone dell'organo vero. Questa copia, meno preziosa, sarebbe stata cambiata poco prima dell'ultimo brano. Poi una piccola carica esplosiva l'avrebbe mandata in pezzi, con grande entusiasmo dei fans. Un senso di meraviglia si impadronì di noi. Era come aprire un giocattolo e vedere finalmente cosa c’era dentro. Era capire le vere regole del gioco per poi esclamare: "Tutto qui !". In realtà eravamo perplessi e anche un poco invidiosi. Noi non avevamo nemmeno i soldi per gli strumenti e qui si spappolavano gli organi a più non posso, tanto per fare del circo. E poi, a ben riflettere, c'era da considerare che tecnici così professionali ti potevano veramente salvare le serate quando, come ci accadeva spesso, gli strumenti cominciavano a fare le bizze. Ma al di là di questo, percepivamo una differenza che andava al di là della questione dei soldi. Lo show inteso in quel modo, con tutti quei fumi, luci e spechietti per le allodole, non era cosa per noi. Tutt’al più potevamo pensare a qualcosa di teatrale, a una finzione scenica, come per esempio un uso accorto di luci e costumi. Ma… non troppo fumo, noi abbiamo sempre preferito l'arrosto.

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L’incontro con Djivas

Nell'estate del '73 erano in Italia. Consigliati da Giorgio Piazza, avevano preso in affitto, come loro quartier generale, una villetta al Lido di Spina. Una sera Franz e Mauro, stanchi della troppa tranquillità, decisero di fare un salto all'Altro Mondo di Rimini.
FRANZ - Quando arrivammo la serata era già iniziata. Conoscevamo bene l'ambiente perché avevamo suonato spesso lì. Quella sera però c'era il Banco del Mutuo Soccorso, i nostri feroci rivali, secondo la stampa. In realtà eravamo buoni amici e come si faceva di solito a quei tempi, il loro concerto si concluse con una gigantesca jam session. Fu lì che conoscemmo Patrick.
Fu tutto un caso: Djivas non aveva alcuna voglia di suonare quella sera. Era arrivato all'ultimo momento, praticamente per caso, e non aveva con sé il suo basso. Era un particolare importante, perché Patrick usava un basso senza tasti.
FRANZ - Credo sia stato Demetrio Stratos, che era insieme a lui nella formazione degli Area, a convincerlo. Patrick fu portato in albergo, prese il suo strumento e tornò in tempo per salire insieme a Demetrio sul palco e fare la grande jam session conclusiva. C'erano Vittorio e Gianni Nocenzi del Banco, Tofani degli Area, Alberto Radius alla chitarra ed Elio D’anna degli Osanna. Fummo invitati anche Mauro ed io. Fin dalle prime battute mi accorsi che il feeeling con Patrick era notevole. Ci sentivamo già una sezione ritmica ben affiatatata. Fu così che quando più tardi ci ritrovammo tutti insieme a cena, gli chiesi a bruciapelo: "Vuoi venire nella PFM?" Non ci volle molto a convincerlo perché Patrick era attratto dalla proiezione internazionale che la PFM garantiva. Entrò nel gruppo giusto in tempo per la registrazione del nostro terzo Lp, L'isola di niente.
PATRICK - Quella sera andai all'Altro Mondo solo per passare un paio d'ore. Dovevo aspettare mezzanotte per vedermi con una splendida tedesca che lavorava in un pub.
Ero con Demetrio Stratos. Lui mi presentò Franz e Mauro che, prima di allora, avevo visto solo un paio di volte. C’erano tantissimi musicisti che volevano fare una Jam, quindi mi chiesero di suonare il basso. Io non volevo, non avevo il mio fretless ma soprattutto avevo il mio appuntamento... Ma Franz, da buon Abruzzese, insistette talmente tanto che convinse un suo amico ad accompagnarmi a prendere il mio strumento in hotel. A questo punto non potei più sottrarmi. La Jam fu uno sballo. Demetrio cantava il Rock'n Roll come nessun'altro. Ci divertimmo con pezzi come Boom Boom, Roll over Beethoven ecc... Franz tirava come un matto, tanto da coinvolgermi totalmente. Finito tutto, al bar, ci furono grandi pacche sulle spalle. Eravamo felici. Franz mi disse: "Vieni allo 'Chez vous '(noto ristorante e ritrovo quasi obbligatorio per i musicisti),mangiamo qualcosa insieme". Io rifiutai, salutai tutti e me ne andai dalla mia tedesca Ovviamente lei non mi aveva aspettato. Mi rimanevano due possibilità: o il mio letto da solo, o lo 'Chez vous' con gli altri. Fortunatamente non avevo sonno. Franz e Mauro mi accolsero a braccia aperte. Franz mi fecce sedere vicino a lui e, senza nemmeno darmi il tempo di ordinare mi disse "Allora, vuoi venire a suonare con noi?". Quella è stata l’unica volta nella mia vita che ho preferito dormire da solo.

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Tour promozionale in USA

Franz - Esordimmo ad Ottawa e facemmo una breve tournée nel New Jersey.
La prima cosa che imparammo fu la posizione delle stelle nella gerarchia dello spettacolo.
Se avete presente la griglia di partenza di un gran premio di Formula Uno, tutto vi sarà più chiaro. In prima fila troviamo il "Top of the bill" , in seconda sta lo "Special guest", in terza l’"Opening act" ed in quarta, a chiudere la fila ma ad aprire lo spettacolo, c’è la " Local band". Noi eravamo gli "Special Guests", quegli strani esotici musicisti speciali, che facevano un rock diverso con le chitarre acustiche, le fisarmoniche, il violino, ma anche con i sintetizzatori e una ritmica potente e sanguigna.
Chi ci aprì le porte del rock business fu Frank Barsalona. Indovinate un po' da dove veniva? Fu lui ad acquistare il "nostro cartellino", diventando così il nostro agente americano Come la maggior parte delle neo star dell’epoca, viveva in una casa appena fuori New York e amava tutto ciò che potesse mostrare al mondo intero che lui era il top manager del momento. La casa era grande, immersa nel verde, con un giardino da fare invidia ad un orto botanico. In mezzo al parco c'era l’immancabile piscina ed in fondo, là dove la tenuta terminava, una enorme terrazza di legno, appoggiata su palafitte e direttamente a strapiombo sull’Hudson. Lì c’era anche un piccolo Budda. Quell’angolo era il suo luogo di meditazione. Cosa meditasse rimase un mistero, perché era cattolico e con Budda non aveva nulla da spartire. Ma quel Budda era un regalo di Mick Jagger, non poteva certo buttarlo via!

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1974 aereoporto

FRANCO - L’America, i tours americani, furono per me occasione di misurare la mia adattabilità ad un continente che sentivo lontano da me, per valori e modo di vivere. E’ stato un misto di grande divertimento mischiato a momenti di delusione.
Appena atterrato a New York, nel nostro primo tour nel 1974, venni preso dall’immagine di come un emigrante già sul posto dovesse accogliere una comitiva di parenti in arrivo dall’Italia. Così, per vivere concretamente questa sensazione, scesi tra i primi dall’aereo, sbrigai subito le pratiche di frontiera e mi disposi ad aspettare gli altri nella grande sala d’attesa. Appena si aprì la porta e nella sala entrarono Franco Mamone e gli altri gridai con quanta voce avevo in corpo "Fernandoooooo!!!" e a braccia aperte feci di corsa tutta la sala tra lo sguardo sbigottito delle centinaia di persone lì in attesa. Proseguii la mia corsa a braccia aperte finendo con un abbraccio esagerato a Mamone che insieme agli altri aveva preso a ridersela a crepapelle. Questo fu il primo scherzo in terra d’America.

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Furto di strumenti

FRANCO –Suonavamo a Los Angels al Roxy, il personale era multirazziale e spiccava su tutti il sorriso di un giovane orientale che pareva la reclàme della gentilezza. Una sera, finito di suonare e lasciati come al solito gli strumenti nel magazzino, ci avviamo al nostro hotel. Alle prime ore del giorno una telefonata del proprietario del locale mi comunica che erano spariti gli strumenti e .. il giovane orientale! Sono sempre stato fatalista, ma vedere sparire nel nulla una Les Paul Oro del ’69, una 335 con tre pickup (con la quale incisi Altaloma) e due Ovation ... fu un colpo davvero pesante! Mister Sorriso aveva colpito anche Patrick "ciuffandogli" 2 bassi. In quell’occasione mi venne in aiuto Carlos Santana che mi prestò gentilmente una sua chitarra per poter fare il concerto in cui la PFM suonava, appunto, assieme al gruppo di Santana.

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Premiata Associate Inc.

L'idea di andare in America nacque sostanzialmente dal grande successo internazionale di Photos of ghosts. Era andato bene nelle classifiche americane, era stato premiato dalla critica giapponese come miglior album dell'anno e nel pop poll di "Melody maker" la Premiata era davanti a gruppi come i Supertramp e gli Eagles.Nel luglio del '74 la band fece il suo primo volo transatlantico.
Franz - In America non si poteva suonare se non si era costituiti in società, perché ogni musicista americano fa parte del sindacato che tutela il suo diritto al lavoro.

Per cui, se uno straniero vuole lavorare, deve dare una sovvenzione per compensare i musicisti locali dello spazio lavorativo occupato. In pratica bisogna pagare delle tasse, ma come singole persone non è possibile: ci vuole una società.
Allora noi ci recammo a Grand Rapid, una città vicina alle Cascate del Niagara, per fondare la Premiata Associate Inc.

Ci diedero le nostre azioni, una per ognuno di noi. Fu una cosa molto divertente, per noi era una novità e ci sembrava di essere dentro a una specie di grande Paese dei Balocchi del Rock.

 

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Reportage Tour U.S.A.

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Cook-Live in USA

FRANZ - La prima tournée americana ci diede un grosso riscontro di pubblico. La band funzionava meglio dal vivo che sul disco, probabilmente perché The world became the world , pur avendo un suono perfetto, risultava forse un po' freddo, un po' troppo meticoloso. Ma sul palco tutto cambiava e avevamo una grande folla di fans che ci seguiva, soprattutto nella West Coast e particolarmente a Los Angeles, dove puoi suonare ogni sera in un locale diverso senza lasciare mai la città. In quel periodo eravamo "Opening act", vale a dire il primo gradino della gerarchia dei gruppi nei concerti. Ma pur iniziando quasi sempre a suonare per primi, eravamo uno dei gruppi più apprezzati, tant'è vero che, a differenza di tanti altre band che si sgonfiavano man mano che proseguivano la loro carriera dal vivo, noi tendevamo a crescere e se avevamo dei problemi a trasmettere tutta la nostra energia in studio, sul palco eravamo delle belve scatenate. In effetti eravamo in una splendida forma fisica, che per un rocker è importante quanto per un atleta: sono queste alchimie a farti vincere lo scudetto e noi eravamo tutti, contemporaneamente, in uno dei nostri momenti migliori. Tutto questa animazione, tutto questo interesse da parte dei media e del pubblico piaceva molto agli americani, perché da quelle parti il marketing della musica si basa soprattutto sui tour. Fu così che il nostro manager americano ci consigliò di fare un disco live. A noi non pareva vero: era un sogno che avevamo da sempre, ma in Italia era molto difficile realizzarlo. Così ci facemmo seguire da uno studio mobile e registrammo quattro concerti. Due erano solo di prova, mentre i due successivi, al Central Park di New York e a Toronto, fornirono il materiale per "Cook", che in Italia si chiamò "Live in USA".

Ma… perché Cook? Era un termine a doppio senso. Il primo significato era quello normale: cucinare. Noi vivevamo speso in piccoli appartamenti e ci facevamo tutto da soli per risparmiare sui costi, che negli States erano molto elevati. Così, cucinando i nostri pranzetti, siamo stati un potente veicolo di propaganda per la cucina italiana. Fu proprio davanti ad un ricco piatto di fusilli che nacque l'idea per la presentazione di Cook. Avvenne naturalmente in un ristorante. I cuochi erano Franco Mussida e il sottoscritto, mentre Patrick, gran conoscitore di lingue e costumi di tutto il mondo, accoglieva i convenuti in abito da gran maitre. Mauro e Flavio si dedicarono alla presentazione dei materiali, biografie e schede varie. La colonna sonora della cena fu naturalmente "Cook". I nostri ospiti assaggiarono queste due specialità italiane, la musica e la cucina. Tutto "cook", perché il secondo significato del termine deriva da uno slang in voga nel mondo musicale che vuol dire "fare bene", in modo incalzante e coinvolgente, molto rock. Cook uscì in contemporanea con la seconda tournée americana e arrivò a ridosso degli "Hot 100". Eravamo lanciatissimi e tornammo in Europa per la terza tournée in Inghilterra.

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Festival di Charlot

Ormai eravano un gruppo che si esibiva al Madison Square Garden o al Fell Forum, i templi del rock americano, e suscitavano grande entusiasmo.
FRANZ - Un bel giorno, mentre suonavamo "Celebration" - che è una tarantella - ci attaccammo per scherzo le celeberrime note di "Funiculì Funiculà", che è anch'essa una tarantella. Ci stava, è il caso di dirlo, come il cacio sui maccheroni. Il tutto, servito com'era da una Premiata Forneria, scatenò un'apoteosi.
A causa di tutte queste scene, Barsalona ci aveva preso piuttosto bene. Dopotutto aveva sangue pugliese nelle vene e "Funiculì funiculà" aveva commosso anche lui. Così, a forza di portare PFM in palmo di mano, organizzava per il gruppo concerti sempre più importanti.
FRANZ - Il più grosso, il più micidiale, fu quello di Charlot, che fu forse il più grosso evento a cui partecipammo in quel periodo. Era in Carolina, se ben ricordo. Prendemmo l'airbus da New York e, dopo tre o quattro cambi, atterrammo nell'aeroporto più vicino al luogo del festival. C'era una macchina pronta per noi - l'organizzazione americana era sempre perfetta - che ci portò in hotel. Ci hanno dato giusto i tempo di rinfrescarci e poi, come da istruzioni, via sul tetto, dove era pronto un elicottero. Io ero entusiasta: non avevo mai volato su un elicottero e mi sembrava di essere in film. Praticamente era un guscio di plexiglass e si vedeva benissimo sotto. Decolliamo e in cinque-dieci minuti ci affacciamo sul catino dell'autodromo di Charlotte. Era uno spettacolo impressionante. Noi avevamo già suonato in grosse manifestazioni. Avevamo fatto da spalla a gruppi molto grossi come I Beach Boys, i Santana, e tanti altri gruppi che in Italia erano sconosciuti ma che negli Stati Uniti erano grandissimi, ma non eravamo certo preparati a una simile visione. L'autodromo era immenso e il pubblico ne occupava quasi la metà. Saranno state circa 250.000 persone. Noi ci infiliamo proprio dentro, atterrando in mezzo, sul prato. Usciamo e saliamo sul palco. Ci organizziamo, facciamo un paio di test e poi cominciamo a suonare. Era pomeriggio e noi eravamo i primi a suonare, perché in quella zona non eravamo molto conosciuti. Fu un concerto bellissimo e come da tradizione finimmo con le armi pesanti, che erano Celebration con in più uno sviluppo finale apocalittico che chiamavamo Poseidon. Il grande volume sonoro entusiasmò il pubblico e concludemmo tra applausi e ovazioni. Il festival durava dodici ore. C'erano Emerson Like & Palmer, Alman Brothers Band, I Beach Boys, i Claimex Blues Band, Step and wolf e tanti altri. Si vedeva gente di tutte le razze e l'atmosfera era quella dei grandissimi appuntamenti, come Woodstock. Una delle cose che c'impressionò di più fu l'organizzazione dei palchi. Ce n'erano due ed erano montati su rotaie. Mentre un gruppo si preparava su uno, in disparte, l'altro suonava dall'altra parte. Poi i palchi scorrevano e si ribaltava la situazione. Queste cose raccontate oggi probabilmente non fanno un grande effetto. Immagino che molta gente, leggendo queste righe, possa dire: " OK, lo sappiamo, s'è visto", però, dovete capire, 20-25 anni fa erano un flash incredibile. Soprattutto per noi, che venivamo dai festival pop della piccola Italia, dove le luci venivano messe su all'ultimo momento, magari pregando in ginocchio l'ente erogatore dell'energia elettrica di non metterci i bastoni tra le ruote.In USA invece, si arrivava sotto il palco in elicottero. Come James Bond.

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Nostalgia dell' Italia

FRANZ - Quando incominciano a non volerti più come "Special Guest" vuol dire che stai avendo successo. Allora ti dicono: "No guarda... non so se chiamare anche voi. Adesso vediamo ..."
A quel punto sei come su un crinale, puoi andare di qua come di là: se prevalgono gli interessi particolari, allora rischi di soccombere. Se invece trovi la strada per allearti col business, allora vai avanti. In questo caso chi pesa maggiormente è il tuo manager. Se è forte, se è potente, allora può pretendere che venga promosso il suo nuovo prodotto, la sua nuova gallinella dalle uova d'oro. Il nostro manager riuscì a imporci e a costituire un accordo con Antonio d'Addario, alias Dee Antony, il manager di Peter Frampton. Facemmo insieme parte della tournée. Nella scala dei valori americani, nella scala dei valori economici intendo, noi e Frampton eravamo allo stesso livello. In certi posti noi eravamo gli Special Guest e lui l'ospite principale del concerto, appena sotto al Top of the built. In atri posti i nostri rispettivi ruoli s'invertivano. In definitiva, dal punto di vista dei business men, eravamo due belle gallinelle da far cantare qua là. Il sistema era scientifico, matematico: un anno di tournée e poi esci col live.
Peter Frampton lo fece e con Frampton comes live vendette 25 milioni di copie. Chissà se ci sarebbe andata allo stesso modo: nelle scelte della vita, nelle vere scelte, quelle irreversibili, non c'è mai la controprova. Per farla breve, gettammo la spugna. Decidemmo di tornare a casa. Eravamo al terzo mese di tournée e si stava avvicinando il Natale. Flavio voleva santificare le feste con la famiglia. Era molto legato a queste cose: l'albero, i regali, la famiglia, il panettone e così via. Era il più acceso sostenitore dello stop. Anche Mauro e Franco propendevano, sia pure a fasi alterne, per il ritorno in Italia. I più convinti a restare erano gli zingari, ovvero il sottoscritto, che è zingaro d'animo, e Patrick, che cogli zingari ha vissuto davvero e che aveva girato il mondo da sempre. A noi due, a prescindere dalle opportunità di carriera, piaceva molto l'idea di fare esperienza di una nuova realtà.
In realtà anche Franco era interessato, ma in America c'era già stato con la Vespucci, quando faceva il militare in Marina, ed era certamente più critico di noi... Insomma, c'erano diversi stati d'animo, diverse esigenze, e ne venne fuori una discussione tremenda.
Il bubbone scoppiò mentre eravamo a New York, nella piscina di un hotel. Mi ricordo che arrivai a minacciare Flavio: "Bene" gli dissi, "allora adesso ti affogo così finalmente rimani qui in America." Non so quanto stessi scherzando. Ci furono musi lunghi per diverso tempo, ma poi prevalse l'unità. Un gruppo ha degli equilibri particolari, che si legano alla necessità di stare insieme: sul palco si va in cinque e bisogna essere d'accordo. Fu così che prevalse il Natale e ce ne tornammo a casa. "Quello che non succede adesso succederà dopo" ci siamo detti. E ci ripromettemmo di ritornare. In realtà non ho mai rimpianto gran ché quella scelta, perché restare in America significava di fatto diventare americano e tutto sommato non so se ci saremmo integrati bene.
Comunque, andò come andò, un po' a caso, come molte delle cose che abbiamo fatto. Eravamo un gruppo di ragazzi. Ci incazzavamo, ci riconciliavamo, suonavamo e facevamo stupidate insieme. Ma quella volta in piscina a Flavio è andata di lusso perché, mentre litigavamo, era in acqua, dove non si tocca. Io non sapevo ancora nuotare bene.

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Il Kimono di Franz

FRANZ - Siamo stati in Giappone quindici o venti giorni, impegnatissimi tra concerti, interviste e apparizioni televisive. Ci aveva stupito l'America, figuratevi il Giappone.
All'epoca io amavo molto la cultura giapponese, perché facevo karatè. Anche Patrick faceva arti marziali. Un po' per comodità ed un po' per amore verso questo tipo di cultura, fino al '78 ho sempre suonato con il kimono. Ne ho comprati a Chinatown, a San Francisco, al Kensington Market di Londra e in qualche altro posto. I kimono, come tutti sappiamo, hanno spesso sulla schiena una serie di segni a noi incomprensibili, ma io, prima di acquistarli, cercavo sempre di informarmi. Allora chiedevo: "Sorry, what is write on... cosa c'è scritto?" E tutti questi giapponesi, cinesi o indocinesi mi rispondevano: "Oh, is happiness, happiness". Il tema di base era sempre quello. Altre volte mi rispondevano che la scritta significava "tanti auguri" o "il giardino di primavera" o "sboccia il loto"... Insomma, sempre cose belle, perle di saggezza e così via. E allora io, tutto bello tranquillo, li acquistavo, sicuro di sapere quale messaggio mi portavo addosso. Una volta giunto in Giappone, però, mi posi un problema: che faccio? Suono in Giappone col kimono? D'altra parte ho il mio look... rinuncio al mio look? Ma poi... cosa mi metto? Insomma, per farla in breve, prendo la mia decisione: kimono.

Finalmente il concerto a Tokyo. La prima volta che feci un bell'intervento vidi un gruppo di giapponesi, tutti maschi, che si sbracciavano come dei pazzi e che mi applaudivano senza risparmio. Allora mi dico: "A quelli piace, che bello!" Vedendo che la cosa funzionava, tutte le volte che incrociavo lo sguardo con loro, facevo una bella rullata. E quelli continuavano, gasati come dei pazzi, tutti per me. Lo spettacolo finì con la gente in visibilio. E' stato un grandissimo successo. Noi eravamo "spremuti al massimo" così, dopo avere tirato un poco il fiato, chiesi al nostro interprete chi fossero i miei esagitati fan.
Dapprima non capì.
"Ma quei ragazzi" gli dico "che erano là in fondo, sulla sinistra... Quelli che si gasavano tutte le volte che mi muovevo...".
"Ah, si, quelli" mi risponde lui, "tu sei il loro idolo".
"Ma come mai?"
"Per il kimono."
"Il kimono?" chiedo "cosa significa?"
"Perché c'è scritto 'Pompieri di Tokyo'. E' una loro divisa. Quei ragazzi sono proprio i pompieri di Tokyo".

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Il basso vola

FRANZ - L'episodio più bello della tournée giapponese ha visto Patrick come protagonista. Era l'ultimo concerto di Tokyo. La gente era in delirio. Ci chiesero un bis, poi un altro. La gente non andava più via, allora decidiamo di fare il 'Poseidon', un pezzo che riservavamo per i finali dei concerti più caldi. Consisteva in una serie di accordi che crescevano sempre più, fino ad ottenere una specie di estasi sonora molto coinvolgente. Era una performance monumentale, un'apoteosi.
Eravamo molto eccitati perché era il nostro secondo concerto consecutivo in città e, come nel primo, c'era stato sold out, il tutto esaurito. La gente era veramente in visibilio. Avevamo un fan club, avevamo preso un disco d’oro, insomma eravamo straconsiderati ...

Allora in quella atmosfera di sfegatato gasamento Patrick, al culmine del 'Poseidon', diede l’ultima botta: si sfilò il basso e, secondo i canoni del rock, lo lanciò in aria. Alzò gli occhi per esibirsi in una presa al volo ma... venne accecato dai fari. Il basso cadde rovinosamente per terra. Patrick rimase per un attimo di ghiaccio: il basso costava allora tre milioni, che all’epoca erano una cifra considerevole, ma poi, preso dall’euforia urlò: "Chi se ne frega!" Prese il basso e lo lanciò in platea.
Il concerto a quel punto era davvero finito. In camerino però Patrick era un po' pensieroso. Come il proverbiale coccodrillo piangeva sul latte versato. "Che stronzata..." diceva, "si era rotto però... si poteva anche rimettere a posto. Va bene fare la rock star, però ... -
In quel momento arrivarono due persone del servizio di sicurezza che, rivolgendosi a Patrick dissero: "Senta, c’é un ragazzo qui fuori... sta aspettando, cosa dobbiamo fare? Lo stanno... lo stanno portando via."
"Ma cosa é successo?" chiese Patrick.
"Be' insomma... abbiamo recuperato il suo basso."
"Ah bene, portatemelo qui."
"No guardi, deve venire fuori lei perché questo ragazzo non lo vuole lasciare. Se lo tiene stretto e non lo vuole mollare."
"Va bene" disse Patrick "allora portatemi qui il ragazzo. Ne parliamo."
"Veramente é fuori in ambulanza. Se rivuole il basso deve venire con noi."
In pratica il poveretto, che aveva preso il basso in testa, si era ferito. Era fuori, sdraiato sul lettino, attaccato allo strumento come una cozza alla scogliera.
Quando Patrick lo vide, si impietosì e... gli lasciò il basso. In fondo quel ragazzo se lo era proprio meritato.

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Alla Royal Albert Hall

FRANZ - Non so ancora se crederci o no. Questa sera suoneremo alla Royal Albert Hall, il tempio della lirica che viene prestato ogni tanto a quelli del rock. Lo sognavo fin dai tempi dell’album " Last concert " dei Cream, quando Eric Clapton Jake Bruce e Ginger Baker dissero addio ai loro fan. Stasera noi diremo ciao, solo ciao, anzi arrivederci. Il pomeriggio lo passarono a fare foto con Michel Pergolani ed il suo allampanato amico fotografo che riuscì a fare alcuni scatti a Di Cioccio mentre si divertiva a fare la parodia di Mr Hyde. Nel frattempo gli altri cercavano di salire sul cavallo del monumento equestre al principe Albert. Dopo essersi salvati la pelle sulle strisce pedonali, dove per la forza di abitudine italiana si guarda in senso opposto, i nostri amici andarono in teatro per il sound check.
FRANZ - All’interno la Royal é molto bella anche se, dall'esterno, tutti quei vetri la fanno sembrare ad un palasport per ricchi. Cominciammo il sound check con il solito rituale. Prima le tastiere, perché Flavio é sempre un po’ impaziente. Non sopporta l'idea di aspettare: alle cinque scatta l’ora del thè e non ci sono storie, deve fare merenda. A dire il vero neppure io riuscivo a stare al mio posto: c’era un clima di eccitazione e non riuscivo a stare lontano dalla mia batteria.
Flavio stava provando il suo moog. Quel giorno era il turno di Albinoni. All'improvviso si sentì uno strano trambusto. Tutto si fermò. Stavano arrivando degli strani individui. Erano molto inglesi, naturalmente, ma non erano rodies. Erano diversi, un po’ più azzimati. Mark, un tecnico, venne da noi tutto eccitato: "C’é la regina , c’é la regina!" Lo guardai un po’ basito e gli chiesi in perfetto "roadies english": "Fuck you ! What happen?" "C’é la regina madre" ripeté, "sta visitando la Royal e sta venendo proprio qui !"
I nostri tecnici erano agitatissimi. E' stato pazzesco vedere il cambiamento subìto dai loro volti. Sembravano perfino educati, con un aplomb sempre rock, ma con un pizzico di quel atteggiamento tipico durante le ispezioni nei college. Mi hanno dato proprio l’impressione di una banda di filibustieri redenti. Scurrili fino all'inverosimile, all’arrivo di un membro della famiglia reale, erano diventati pirati gentiluomini. Non avevo mai visto prima una regina. "E' proprio di carne e ossa", pensai. La regina madre è una signora di molta grazia che faceva una certa fatica a districarsi tra le maglie delle gentili attenzioni poste dall’etichetta. Si avvicinò alle tastiere e chiese a Premoli che cosa stesse suonando. Flavio, da bravo ragazzo educato, rispose: "Is Albinoni Madam."
"I love italian musicians" rispose la Queen mother. " Are you italian?"
"They are the italian too rock band" rispose uno dei rodies.
Questa la capii al volo e mi gasai non poco. Mi avvicinai al gruppetto, trovandomi a due passi da Mary Elisabet.
"Ero in giro per la Royal Albert Hall" disse, "ma questa musica così bella mi ha guidata fin qui."
Flavio attaccò subito l’adagio di Albinoni, in versione edulcorata, quasi classica, e la Queen mother rimase letteralmente incantata.
I dignitari erano sorpresi, beati ed orgogliosi di questo democratico gesto della regina. I fotografi al seguito non si lasciarono scappare l’occasione di immortalare il primo concerto rock della regina, se così si può definire.
"Mi raccomando facciamoci dare le foto" ci siamo detti. Le abbiamo ancora tutte.

PATRICK - Dopo che se ne fu andata uno dei fotografi presenti venne da me e mi disse:
"Sono il fotografo della Norlin, la società che distribuisce Gibson. Penso che alla Società siano interessati a queste foto di te con la Regina Madre". Io non capii, ma poi mi resi conto di avere una maglietta pubblicitaria della Gibson.
Mi chiese il mio numero di telefono e mi disse che avrebbe pianificato tutto lui.
Qualche giorno dopo fui convocato alla Norlin quache David Leed, un omone alto due metri e rosso di cappelli, che mi propose un contratto di sponsorizzazione con la Gibson. Mi disse che mi avrebbero inserito nel catalogo Gibson e dato il più ampio supporto con gli strumenti. Accettai il tutto ringraziando segretamente la Regina Madre. Usai bassi Gibson per un anno, fino che non passai alla Music Man.Una dozzina di anni dopo, alla fiera dello strumento di Milano, passando davanti alla stand dell'amico Monzino, vidi David Leed. Lo riconobbi subito perché oltrepassava tutti i presenti di una buona testa. Mi venne la voglia di andare a salutarlo, ma cambiai subito idea: non si sarebbe ricordato di me e, sinceramente, non mi andava di incominciare con i soliti 'Ti ricordi? Tanti anni fa...'. A quel punto, lo sguardo di David incontrò il mio. Con mio stupore urlò :"Hey Patrick, ciaoooo come va? Vieni, vieni...". Cercando di sembrare il meno sorpreso possibile, lo raggiunsi ed insieme andammo in uno di quei piccoli dietro allo stand. Naturalmente incominciammo a parlare dei bei tempi facendoci un sacco di risate.
Mi disse che era diventato direttore generale della Norlin Europa. Dopo un po’ mi feci coraggio e gli chiesi:" Ma come hai fatto a riconoscermi così velocemente dopo tanti anni. Io non sono un tipo come te, uno di quelli che si vede una volta e che non si scorda più". Mi sorridendo mi rispose " Vuoi sapere come ho fatto? Beh, te lo spiego subito. Ti ricordi la foto con la Regina Madre? Bene, abbiamo chiesto a Buckingham Palace il permesso di utilizzarla a scopo pubblicitario ma, come puoi immaginare, ci sono stati molti problemi. Naturalmente abbiamo desistito, ma la foto era talmente bella, che ho fatto fare un ingrandimento di due metri per uno, piazzandolo davanti alla mia scrivania. Caro Patrick, tu e la nostra Regina Madre siete le prime persone che vedo tutte le mattine. Ecco come ho fatto".

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Lanzetti e Chocolate Kings

L'interruzione della tournée americana fece da detonatore a tanti problemi irrisolti. PFM decise perciò di dare un taglio definitivo al problema del cantante di ruolo.
FRANZ - Flirtammo a lungo con Ivan Graziani, ma sostanzialmente era un cantautore e la sua successiva brillante carriera lo ha dimostrato. Trovammo invece Bernardo Lanzetti, la voce giusta. Tra l'altro aveva vissuto negli Stati Uniti e cantava molto bene anche in inglese, cosa per noi molto importante.
Lanzetti entrò con facilità nel progetto del successivo LP, Chocolate Kings. I testi vennero scritti direttamente in inglese, non per snobbare l'italiano, ma soprattutto perché Pagani entrò in crisi come autore.
"Non c'è niente da fare" diceva, "l'italiano non funziona col rock."   E' un problema molto noto tra i musicisti: l'inglese ha molte parole monosillabiche, che con gli accenti ritmici del rock si sposano perfettamente. Non per nulla noi italiani abbiamo una tradizione melodica. Inoltre, Lanzetti non aveva mai cantato in italiano.
Questa caratteristica, insieme ad una musicalità rock spruzzata di jazz, che allora era un po' d'avanguardia, resero ostico il disco per il mercato italiano. Andò bene, ma la Premiata fu criticata, e in quel periodo la critica era soprattutto di carattere ideologico. Venivano spesso accusati di essere "commerciali", un'accusa che oggi appare a chiunque come una sciocchezza. Chocolate Kings era un disco molto critico nei confronti dell’american way of life. Parlava dei "re di cioccolata", cioè degli americani che avevano colonizzato l'Italia nel dopoguerra. Parlava del consumismo e della supremazia americana nel mondo. Il tutto però senza demonizzare gli States, dei quali venivano descritti anche gli aspetti più stimolanti e positivi. Insomma non era un manifesto politico, ma una riflessione critica. E come spesso accade, l'intelligenza irrita. Irritò gli italiani e anche gli americani. Chocolate Kings ebbe la disavventura di uscire in occasione del bicentenario dell'indipendenza. In copertina c'era una bandiera americana accartocciata che rivestiva una barretta di cioccolata. Figuratevi gli americani: scandalizzati, indignati, inviperiti.
FRANZ - Avevamo fatto una toppa di marketing di quelle micidiali - ma da noi a quei tempi il marketing era farina del diavolo, del capitale. L'album però andò molto bene sia in Inghilterra che in tutta Europa quindi, sull'onda di quel successo, partimmo per il Giappone.

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Drive in

FRANCO - Negli Stati Uniti senza l’automobile sei come paralizzato. Puoi fare tutto con l’automobile, ma se non ce l’hai? Mi capitò così a Houston nel Texas di soggiornare in un hotel senza room service (ovvero cibarie in camera). Era una di quelle sere di transizione tra un concerto l’altro, serate in cui lo scopone scientifico era di prassi. Una partita tira l’altra e alle undici sera la fame cominciava a roderci gli stomaci. Non avevamo la macchina, ma avevo visto vicino all’hotel un drive fast ovvero un posto dove entri con l’auto e puoi ordinare pizza, hamburger vari, patatine e le solite cibarie americane. Compresa l’immancabile Coca Cola con ghiaccio, anzi ghiaccio con Coca. Decisi così di trasformarmi in una rombante Cadillac e con la compagnia di Bernardo Lanzetti mi metto in fila tra le macchine e, tra qualche strombazzatura alla quale rispondo con adeguato sorriso, arrivo alla cassa. Il rumore del motore della Cadillac che usciva dalla mia bocca non era il massimo, così come non lo era la posizione mia e di Bernardo semiseduti su un inesistente sedile, ma i nostri sorrisi fecero il miracolo, facendo scoppiare in una risata la giovane e carina cameriera addetta alla consegna dei vassoi con il cibo. Ci dette pizze e Coca Cola a volontà e noi ce ne andammo rombando con le gambe piegate a mo’ di "auto". Non si può certo dire che gli americani non sappiano stare allo scherzo.

 

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Una bufala a Frank Zappa

FRANZ - Anche per "Passpartù" pensammo di realizzare una versione in inglese. L'idea scattò quando venimmo a saper che Frank Zappa era a Londra: sarebbe stato molto bello se lui avesse scritto i testi. Noi lo conoscevamo dai tempi del nostro soggiorno californiano per la realizzazione di Jet Lag. A lui piaceva molto la nostra band e avevamo stretto un rapporto di reciproca stima. Ci aveva perfino invitato alle sue prove e, quando Zappa ti invita alle prove, significa che ti stima come musicista.
Allora io presi il biglietto e andai a Londra. Lui mi ricevette nel suo hotel, in una suite grandissima. In quel periodo stava organizzando una serie di registrazioni dal vivo, perché lui registrava sempre i suoi concerti. E' da lui che abbiamo imparato a registrare anche i nostri, per poterli riascoltare. E' sempre interessante avere quello che hai fatto, soprattutto se sei uno che improvvisa molto come la PFM. Ci salutiamo e gli mostro i testi di "Passpartù" scritti da Gianfranco Manfredi. Erano molto ironici e raccontavano storie abbastanza surreali. Tra gli altri c'erano "I Cavalieri del tavolo cubico", "Sulla mosca e sui dolci", " Tramo le trame blu", "Svita la vita"... avevamo preso questo filone, ma non eravamo molto soddisfatti. Spiego a Frank che vorrei coinvolgerlo per dare una sterzata al disco. Lui annuisce, ma naturalmente vuole conoscere bene quello che è stato già fatto. Inizio a tradurre "I Cavalieri del tavolo cubico". A un certo punto lui mi guarda con aria strana. "Cubico? Ma non era la tavola rotonda?"
"Sì, ma questa è una trasposizione ironica di quella storia..."
Lui mi guarda un po' stupito e poi gravemente mi dice: "Yeah! I see..."
Io sono un poco in difficoltà, perché ho la netta sensazione che stia pensando che io sono matto. E che lo pensasse Frank Zappa era un tutto dire. Comunque mi arrampico un po' sugli specchi. Spiego, rispiego e traduco finché non arriviamo ad un testo che Manfredi ci aveva spacciato per una cosa che parlava di blues... In effetti la musica era proprio un bleus, ma il testo era abbastanza ermetico. Diceva pressappoco: "Questa sera il grande spirito del blues aleggia intorno a noi. Halifax non è morto!" E quando noi avevamo chiesto a Manfredi: "Ma chi cazzo è questo Halifax?", lui aveva risposto che si trattava di un tizio della Louisiana considerato unanimamente l'inventore del blues. Un mito insomma: "Cazzo... Halifax..." dicemmo noi, "il blues... e tu sai queste cose? Accidenti... ci piacerebbe andare in fondo... Chi l'avrebbe mai detto?" E così ci convincemmo dell'importanza di Halifax nella storia della musica americana. Con questa ingenua certezza nel cuore, arrivo finalmente a parlare di Halifax a Frank.
"So, and we have also a great music, a blues!"
"Ah!" mi fa lui tutto contento. "I love blues! And what is talking about this blues?"
"So" dico io con la faccia goduta, "this is the story of Halifax!... Halifax, you know?"
"Is the story of what?"
"Halifax" insisto io, "you know... ?" E gli spiego tutto la storia traducendo dall'italiano all'inglese. Quando arrivo al punto chiave sottolineo con entusiasmo il concetto. "Halifax is not dead!" dico con commozione. "Halifax è vivo!"
"Are you sure?" chiede Frank, "Sei sicuro che non è morto?"
"No" dico io " because... Halifax is not dead because the blues lives on! Il blues vive ancora!"
Frank mi guarda sempre più stranito.
Io insisto. "Il blues vive perché Halifax rinasce tutte le sere nei club!"
Lo sguardo di Frank era torbido. Era chiaro che non capiva. Allora taglio la testa al toro, sicuro di risolvere l'equivoco: "Halifax! The man who invented the Blues! Il padre del blues, il suo creatore!"
Frank sgrana gli occhi. "Hali... what?"
Io sbianco e intanto lui scuote a testa. "I've never heard it. Nobody invented the blues, you know? Il blues è nato per i cazzi suoi, nasce come una cosa qualsiasi. Non conosco proprio nessuno che dice: hey, io ho inventato questa cosa, questa cosa è mia!"
Io mi sono fatto piccino piccino ma poi, naturalmente, tutto è finito in quattro risate.
Purtroppo però il progetto non andò in porto. Frank aveva troppi impegni, e le sue date non coincidevano con le nostre. Avremmo dovuto aspettare sei mesi, ma purtroppo non potevamo permettercelo. O per lo meno così ci sembrava.
Me ne tornai in Italia con un bel pugno di mosche in mano. Bisognava rivedere i nostri programmi e pensare bene a cosa fare. Halifax ci aveva lasciati e il nostro futuro si profilava incerto.

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Teoria del Rembrant.

FRANZ - Nel '79 abbiamo preso in considerazione l'idea di scioglierci. Io ero molto preoccupato perché ho sempre dato un'importanza primaria al gruppo. Pensavo che la nostra vita di musicisti dovesse radicarsi nell'esperienza e nel patrimonio di competenze accumulato proprio dalla PFM. Fu allora che inventai la "teoria Rembrandt".
"Ragazzi" dissi una di quelle sere passate a cercare soluzioni " il discorso è questo: siamo partiti nel '70, ora siamo nel '79. Abbiamo fatto tante cose ed abbiamo ancora una enorme potenzialità ed un grande valore. Siamo come un quadro di Rembrandt. Voglio dire, al di là del valore del mercato, la nostra opera, la nostra musica è come un capolavoro di Rembrandt, possiede cioè una bellezza intrinseca. Non dobbiamo buttarla via. Non dobbiamo dimenticare che tutto questo un giorno sarà apprezzato per quello che vale. Noi abbiamo la nostra musica, la nostra capacità di suonare bene dal vivo, improvvisando e creando in ogni momento qualcosa di nuovo. La musica automatica alla fine passerà. Dobbiamo andare avanti per la nostra strada, come Rembrandt. Lui non avrebbe mai buttato via i pennelli." Fu una lunga tirata e per un motivo che tuttora mi sfugge, questo paragone un po' forzato funzionò. Così, sull'onda della 'teoria Rembrandt' decidemmo di fare una nuova tournée in Italia. "Andiamo a suonare" dicevo, "e probabilmente la gente che ci ama ci darà l'energia giusta. Capiremo cosa fare proprio a contatto col pubblico."
Fu durante questa tournée che, giunti in Sardegna, incontrammo Fabrizio de André.

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Fabrizio De André

FRANZ - A mio avviso, tra tutti i cantautori, Fabrizio De André è quello che più di ogni altro è riuscito a infondere poeticità nelle sue canzoni. Noi lo conoscevamo da tempo - avevamo già lavorato con lui alcuni anni prima - e così, quando un giorno d'estate lo incontrammo a un concerto in Sardegna gli buttai lì l'idea di fare qualcosa insieme. La collaborazione tra un cantautore e un gruppo era comune in America e a noi sembrava che con Fabrizio si sarebbe potuto svolgere un buon lavoro, offrendo al pubblico italiano qualcosa di nuovo. De André aveva avuto un'esperienza simile solo con i New Trolls, che per certi versi era stata positiva e per altri no, perché erano rimasti due gruppi di lavoro abbastanza divisi. Non c'era stata una fusione vera e propria. Diciamo che loro avevano suonato le cose di De André e De André aveva avuto un gruppo che lo accompagnava, tutto qua. Noi invece avevamo in mente qualcosa di molto diverso, un vero e proprio progetto di collaborazione artistica, dove ognuna delle due componenti, il cantautore e il gruppo, avrebbe influenzato l'altra. Glielo spiegammo, ma lì per lì non la prese molto bene.
"Eh belin!" disse, "suonate troppo forte!"
"Ma no, ci adattiamo a te!"
"Arrivate con tutti vostri watt e mi uccidete!"
"Ascolta" disse Franco prendendo la chitarra, "io 'Il pescatore' la vedo così. Un po' più funky, un po' più allegra..." e si mette a fare un giro di accordi.
Fabrizio ascolta e sorride. "E la batteria? Questo qui picchia forte, non so...."
Ci volle un po', ma riuscimmo a convincerlo, forse anche perché riuscimmo a comunicargli il senso del gruppo. Fare una tournée però lo spaventava un po'. In generale Fabrizio è una persona un po' schiva e l'idea di affrontare il pubblico tutte le sere, di viaggiare con noi e con tutto l'annesso, non gli garbava molto. Ma riuscimmo a trasmettergli la carica giusta. Gli garantimmo comprensione e collaborazione e alla fine, stringendoci la mano, suggellammo l'accordo.
Scegliemmo un trentina di pezzi e ci suddividemmo il lavoro. Era una strategia che serviva a non tradire lo stile dei pezzi. Per esempio le canzoni più francesiggianti sono state affidate a Patrick, perché essendo vissuto in Francia poteva arrangiarle in linea con il loro sound. Franco invece prese i pezzi dove poteva fare valere la sua dimestichezza con la musicalità della chitarra. A Flavio vennero affidate le cose che ci sembravano richiedere un'elaborazione più complessa, perché dal punto di vista degli arrangiamenti era il più preparato di tutti. Mettemmo su un bel gruppo di lavoro e dopo qualche mese il materiale fu pronto. Ne era uscita una cosa nuova e un po' strana, dove la poeticità dei testi di Fabrizio e le sue belle e pulite linee melodiche si sposavano con una musicalità sognante, piena di immagini, invenzioni e colpi di scena. La cosa funzionò a meraviglia: i pezzi, completamente rivisti e rielaborati, assumevano un sapore nuovo e più pieno, mentre il dialogo tra testi e impasti sonori risultava continuo ed equilibrato. In questo contesto, la voce calda e affascinante di Fabrizio non veniva per nulla sacrificata, anzi. Tutto infatti era stato studiato nei minimi particolari affinché noi non lo coprissimo mai. Gli arrangiamenti erano stemperati: quando lui cantava, sembrava di vedere un acquerello, un dipinto molto bello dai colori tenui. C'erano però anche momenti in cui si partiva forte in modo da far esplodere la carica musicale della PFM. Ne fummo tutti molto soddisfatti. Anche il pubblico dimostrò di apprezzare quello strano connubio, tra due realtà che allora, in Italia, erano considerate assolutamente incompatibili. Invece la nostra idea funzionò, dimostrando che anche un cantautore può avere da guadagnare dalla collaborazione con un gruppo. E viceversa.

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La lezione di De Andrè

FRANZ - La grande lezione che imparammo dall'esperienza con De André fu constatare che, quando si attaccava un pezzo, il pubblico si alzava in piedi a braccia levate. Lui cantava: "Questa di Marinella..", e la gente: "Uaaaaa!!!", perché riconosceva subito il brano. Così abbiamo capito che il testo, se racconta una storia, soprattutto una storia vera, personale o poetica, fa vivere le canzoni molto più a lungo, in una dimensione più dilatata. Per dirla brutalmente, io avrò fatto nella mia vita 2000 assolo di batteria, ma non credo che la gente se li possa ricordare. Si ricorderà l'energia, si ricorderà l'entusiasmo, la forza, il vigore... ma nessuno potrà mai cantarti un assolo di batteria e se vuole riviverlo deve riascoltarselo sul disco. Tutti invece sono in grado di cantare la Canzone di Marinella, magari sotto la doccia, senza strumenti o impianti hi-fi.
Tutto questo ci spinse a riflettere sul senso del canto all'interno del gruppo. Non si trattava più del problema di avere un cantante di ruolo, ma di trovare un veicolo più diretto nel contatto con il pubblico. Forse un front man, pensammo, una persona che possa traghettare il gruppo verso il pubblico e viceversa. Soprattutto avevamo bisogno di canzoni a presa rapida, che potessero lasciare un segno.

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